La guerra cognitiva utilizza capacità informatiche, psicologiche e d’ingegneria sociale per raggiungere i propri obiettivi. In particolare, sfrutta la rete e i social network per indirizzare determinate informazioni a influencer o a specifici gruppi nei social, che hanno migliaia di followers. In tal modo, ciò che si vuole diffondere nella società provoca effetti altrettanto efficaci di quelli che si potrebbero ottenere con una guerra convenzionale, ma con costi sociali decisamente minori.

Questa tipologia di conflitto ha lo scopo di seminare il dubbio, di polarizzare l’opinione pubblica, di radicalizzare gruppi estremi.
Le applicazioni più comuni sui nostri smartphone tengono costantemente traccia di ciò che ci piace e delle nostre tendenze politiche.
Stesso discorso vale per i social network, che forniscono informazioni sulle nostre scelte di vita, dalle amicizie virtuali ai contenuti che seguiamo.
Le piattaforme di e-commerce utilizzano questi dati per influenzare le nostre preferenze e convinzioni, con il fine di incoraggiarci ad acquistare beni.
L’uso massivo dei social media può condizionare i nostri processi cognitivi, rafforzando pregiudizi, anche grazie ai feed di notizie e i motori di ricerca che forniscono risultati in linea con le nostre preferenze, radicalizzando, in tal modo, le nostre convinzioni.

Il ritmo rapido della messaggistica e dei comunicati stampa stimola il lato emotivo della persona e spinge il soggetto a una reattività di scelta veloce, in contrasto con il “pensiero lento” e criteri di selezione più razionali.
A ciò si sono adeguate anche le testate giornalistiche, che hanno adottato uno stile sempre più aggressivo, e la pubblicazione di titoli “emotivamente forti” per stimolare il “clickbait” e la diffusione virale dei propri articoli.
Ciò induce gli utenti a leggere sempre meno i contenuti e a limitarsi a una lettura superficiale, che insieme alle immagini visive accattivanti, spesso postate, portano a non soffermarsi sul contesto e su sfumature importanti, impedendo così ai lettori di comprendere motivazioni e significati.
Questo sistema, sfruttato in ambito tattico di warfare cognitivo, facilita la diffusione d’informazioni tendenziose, o di narrazioni intenzionalmente distorte.
Christian Harbulot, nato il 19 dicembre 1952 a Verdun, è Direttore e fondatore della Scuola di Guerra Economica (EGE). Influente esperto francese in materia di intelligence economica, dal 2009 è membro del Consiglio Scientifico del Consiglio Superiore per la Formazione e la Ricerca Strategica (CSFRS) e Vicepresidente dell’Istituto Internazionale di Intelligenza Economica e Strategica.

Una premessa fondamentale per sottolineare l’importanza di quanto afferma: “Il mondo sta cambiando, la realtà è diversa, mutano gli eventi e i modi di intendere la politica. E anche gli strumenti: se una volta valeva l’affermazione di Clausewitz che la guerra è politica fatta con altri mezzi, oggi si può affermare che la politica è la guerra fatta con l’uso delle informazioni“.
“La minaccia non è più solo quella a cui eravamo abituati e che poteva localizzarsi dal punto di vista geografico nell’attacco di una grande potenza contro un’altra potenza.
Oggi la minaccia è asimmetrica, diversa, cambia in continuazione, viaggia in rete, è immediata e, soprattutto, è rivolta contro l’intero sistema.
Non mira a colpire bersagli militari o politici, ma interessi commerciali, industriali, scientifici, tecnologici e finanziari“.

“Lo sviluppo della società dell’informazione ha modificato profondamente il quadro dei conflitti.
Secondo analisti americani come John Arquilla e David Rundfeldt, esperti della guerra in rete (netwar) alla, non è più chi ha la bomba più grossa che prevarrà nei conflitti di domani, ma chi racconterà la storia migliore.
In quest’ottica, gli americani hanno parlato, fin dal 1997, del concetto chiave di information dominance.
Definita come il controllo di tutto quanto è informazione, questa dottrina avrebbe la vocazione di plasmare il mondo attraverso l’armonizzazione delle pratiche e delle norme internazionali sul modello americano, col fine di mettere sotto controllo gli organi decisionali.
I processi di manipolazione dell’informazione permettono di marginalizzare determinati fatti e perciò il dominio dell’informazione è divenuto una priorità per la strategia americana…Pensiamo a come la guerra in Iraq abbia evidenziato l’importanza che la manipolazione dell’informazione ha assunto nelle relazioni internazionali.
Le accuse avanzate da G. W. Bush contro Saddam Hussein riguardo l’esistenza di armi di distruzione di massa è divenuta un caso di scuola nella storia della disinformazione“.
“Il punto di forza dell’attacco cognitivo non è ingannare o disinformare, ma alimentare una polemica pertinente appurata per mezzo di fatti oggettivi. Il livello della cospirazione si limita all’installazione e all’attivazione della catena informativa. Ma più la polemica è “fondata”, meno è facile dimostrare, anche solo teoricamente, la cospirazione”.
“La guerra psicologica utilizza tutti i metodi a sua disposizione, dalla disinformazione all’inganno, dalla propaganda all’interdizione, in scontri di natura diversa (dalla lotta al terrorismo al combattimento convenzionale, fino alla sovvenzione della pace), ed è perlopiù diretta verso l’opinione pubblica, per condizionarla o manipolarla. L’arma psicologica non contempla l’improvvisazione, ma si appoggia su una struttura operativa organizzata e condotta da personale e organismi specializzati.”

I contenuti di questo sito sono molto interessanti ed in primis veritieri. Il dramma vero è che molta gente rifiuta a priori di informarsi e con la stessa presunzione con cui si permette di “etichettare” ciò che non conosce riflette, da un’altra angolazione, la sua più totale incapacità ad argomentare .